Confermate le assoluzioni per i familiari di una ragazza di fede islamica tenuta segregata in casa


Non è reato punire i figli per il loro bene


(Cassazione 31510/2007


Punire duramente la propria figlia ribelle non è reato se le violenze non sono abituali e se le misure sono adottate per il suo bene. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione che, con una decisione destinata a far discutere, ha confermato l’assoluzione per madre, padre e fratello di fede islamica accusati di maltrattamenti nei confronti della minore Fatima. La ragazza, infatti, era stata picchiata e legata dai familiari per impedirle uno stile di vita ritenuto non conforme alla cultura della famiglia, e per questo aveva minacciato di suicidarsi. Era partita dunque la denuncia penale, culminata nella richiesta della Procura di Bologna, che chiedeva la condanna dei genitori e del fratello della minore per sequestro di persona e maltrattamenti. I tre, condannati in primo grado, erano stati assolti dalla Corte di Appello di Bologna, che aveva accolto la tesi difensiva degli imputati secondo la quale la ragazza era stata legata per il suo bene ed i maltrattamenti non potevano considerarsi abituali, essendo accaduti solo tre volte e per di più motivati da comportamenti della figlia ritenuti scorretti. Il Procuratore Generale di Bologna, non condividendo la decisione, aveva invece chiesto le condanne sottolineando che la ragazza era stata segregata e liberata solo per essere poi brutalmente picchiata dai congiunti che volevano punirla per la frequentazione di un amico e, più in generale, per il suo stile di vita, non conforme alla loro cultura. La Suprema Corte ha invece confermato le assoluzioni per i tre imputati, ritenendo che dall’istruttoria dibattimentale fosse emerso con certezza che Fatima, terrorizzata dalla ritorsioni dei familiari perché si era recata al lavoro incontrandosi con un uomo, aveva minacciato di suicidarsi, per cui i familiari furono costretti a legarla per evitare che commettesse atti di autolesionismo, mentre, per quanto riguarda i maltrattamenti, gli stessi apparivano “motivati da comportamenti della figlia ritenuti scorretti, e quindi non esprimenti il necessario requisito di volontà di sopraffazione e disprezzo”. (08 ottobre 2007)


 


Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta penale, sentenza n.31510/2007


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE


QUINTA SEZIONE PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri:


Dott. Calabrese Renato Luigi Presidente


Dott. Amato Alfonso Consigliere


Dott. Federico Raffaello Consigliere


Dott. Fumo Maurizio Consigliere


Dott. Didone Antonio Consigliere


Ha pronunciato la seguente


SENTENZA


Sul ricorso proposto da:


PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO


CORTE APPELLO di Bologna


Nei confronti di:


1) R. M’H N. il 01/01/1951


2) S. J. N. il 20/09/1964


3) R. R. N. il 16/09/1981


Avverso SENTENZA del 26/09/2006


CORTE APPELLO di Bologna


Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso


Udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere


DIDONE ANTONIO


Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Francesco Salzano


Che ha concluso per la conversione in appello


Udito per la parte civile l’avv.


Letta la memoria depositata dal difensore avv.


MOTIVI DELLA DECISIONE


Il Procuratore Generale della repubblica di Bologna ricorre per cassazione contro la sentenza del 26 settembre 2006 con la quale la Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto R. M’H, S. J. , e R.R. dai delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti in danno di R. F.


Il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione e deduce che R. F., figlia di R. M’H. e di S. J. E sorella di R. R. è stata segregata per circa due ore nella propria stanza con le mani legate dai propri congiunti che volevano punire la ragazza per la frequentazione di un amico e piu’ in generale per il suo stile di vita, non conforme alla loro cultura.


Avrebbe errato la Corte di merito nell’accogliere la tesi difensiva secondo la quale gli imputati avrebbero rinchiuso e legato R. F. solo al fine di prevenire il suicidio che la ragazza avrebbe minacciato, ritenendo sussistente, quanto al delitto di sequestro di persona, la scriminante dello stato dinecessità [1].


Deduce il ricorrente che la Corte di merito non avrebbe adeguatamente motivato le proprie decisioni , omettendo di tenere nel debito conto le dichiarazioni della persona offesa e dei testi S. e G. e, quanto al sequestro, fondandosi principalmente sulle interessate dichiarazioni degli imputati.


Sussisterebbe il difetto di motivazione “relativamente a quella statuizione dell’art. 54 c.p. per cui il pericolo non deve essere “volontariamente causato” dal soggetto agente” nonché in ordine alla possibilità di evitare il pericolo “altrimenti”, ai sensi dell’art. 54 c.p. .


Osserva la Corte che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.


Nella concreta fattispecie, invero, le censure esorbitano dai limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamene propria dal giudice del merito e nell’offerta di una diversa (e per il ricorrente piu’ favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio. Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. V, 30 novembre 1999, Moro, m. 215745, Cass., sez. II, 21 dicembre 1993, Modesto, m. 196955). Secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, del resto, l’art. 606 c.p.p., non consente alla corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali (Cass., sez. VI, 30 novembre 1994, Baldi, m. 200842; Cass., sez. I, 27 luglio 1995, Chiadò m. 202228) o una diversa interpretazione delle prove (Cass. seza. I, 5 novembre 1993,Molino, m.196353, Cass., sez. un., 27 settembre 1995, Mannino, m. 202903), perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori; e l’art. 606 c.p.p., lettera e), quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo del provvedimento impugnato, si limita a fornire solo una corretta definizione del controllo di legittimità sul vizio di motivazione. Né questa interpretazione può risultare superata in ragione della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera e, dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, con la previsione che il vizio di motivazione può essere dedotto quando risulti non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche “da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” (sez. VI, 15 marzo 2006, Casula; Sez. V, 22 marzo 2006, cugliari; Sez. V, 12 aprile 2006 n. 16955, Pres. Lattanzi – est. Nappi; Sez. V, Sentenza n. 19388 del 2006; Sez. VI, Sentenza n. 27429 del 2006; Sez. VI, Sentenza n. 22256 del 2006).


Va ribadito, invero, che “la verifica che la Corte di Cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza non può essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. Né la corte suprema può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull’attendibilità delle fonti di prova, giacchè esso, anche in base all’ordinamento processuale preesistente all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale – nel quale non esistevano i limiti preclusivi che un’avvertita esigenza di maggior razionalizzazione del sistema ha introdotto con l’art. 606 comma 1 lett. e), del codice di procedura vigente – era attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindaco di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova” (sez. un., 23 novembre 1995, n. 2110, Pres. Vessia, Est. Marvulli).


La peculiarità del giudizio di legittimità consiste proprio in ciò che oggetto di esso è una proposizione metalinguistica, ossia “il contrasto” tra una sentenza ed una disposizione di legge e, nel valutare il dedotto contrasto tra il provvedimento impugnato in relazione all’art. 606 lett. e) c.p.p., la Cassazione deve solo verificare che la decisione del giudice del merito sia stata congruamente e logicamente giustificata sia nel sillogismo deduttivo che abbia condotto alla applicazione di una determinata norma ad un fatto accertato sia nelle argomentazioni che sorreggano la ricostruzione del fatto medesimo.


Ciò permesso, va rilevato che nessun vizio è riscontrabile nella sentenza impugnata la quale è pervenuta all’assoluzione degli imputati attraverso la considerazione delle varie prove acquisite e la corretta indicazione del significato dimostrativo loro attribuito dal giudice in particolare evidenziando innanzitutto che dall’istruttoria dibattimentale del primo giudizio era emerso con certezza che F. , terrorizzata dalle possibili ritorsioni dei familiari perché la stessa non si era recata al lavoro incontrandosi con un uomo, aveva minacciato di suicidarsi, sia mettendosi una corda intorno al collo, sia cercando di raggiungere una finestra per buttarsi di sotto.


La Corte di merito ha accertato, che secondo la versione dibattimentale della persona offesa, le vennero legati i polsi con la corda per impedirle di attuare il suo proposito suicidarlo e quindi percossa e che le valutazioni del primo giudice, secondo cui la ragazza prima sarebbe stata legata e sottoposta al pesante trattamento punitivo e poi essa avrebbe tentato il suicidio , costituivano una ipotesi che non trovava sicura conferma nelle carte processuali e che non corrispondeva alla versione dibattimentale di F. , collimate per lo piu’ con la tesi degli imputati, che la legatura dei polsi fu determinata dal proposito di impedire gesti di autolesionismo.


Trattasi di accertamento in fatto non censurabile in sede di legittimità dal quale la corte territoriale ha correttamente desunto l’esistenza di un ragionevole dubbio circa la sussistenza della scriminante dello stato di necessità. Scriminante non esclusa – come sostiene il ricorrente – dal pregresso comportamento degli imputati, una volta che la Corte di merito – anche qui non accertamento insindacabile in cassazione, ritenendo le deposizioni del G. e della S., al riguardo , estremamente generiche e non riscontrate dalla deposizione della diretta interessata _ ha ritenuto che non sussistesse la “piena prova della abitualità delle condotte violente dell’imputato in danno della figlia” ma la prova di tre soli episodi nell’arco della vita di F., peraltro tutti motivati da comportamenti della figlia ritenuti scorretti e quindi non esprimenti il necessario requisito di volontà di sopraffazione e disprezzo.


P.Q.M


Dichiara inammissibile il ricorso.


Così deciso in Roma il 27 giugno 2007-09-08


Il Consigliere estensore Il Presidente


DEPOSITATA IN CANCELLERIA


IL 2 AGOSTO 2007


Fonte Kataweb.it

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